
Liliana Segre, Daniela Palumbo
Editore:
Piemme
Collana:
Pickwick
Anno edizione:
2018
Formato:
Tascabile
Descrizione
La sera in cui a Liliana viene detto che non potrà più andare a scuola, lei non sa nemmeno di essere ebrea. In poco tempo i giochi, le corse coi cavalli e i regali di suo papà diventano un ricordo e Liliana si ritrova prima emarginata, poi senza una casa, infine in fuga e arrestata. A tredici anni viene deportata ad Auschwitz. Parte il 30 gennaio 1944 dal binario 21 della stazione Centrale di Milano e sarà l’unica bambina di quel treno a tornare indietro. Ogni sera nel campo cercava in cielo la sua stella. Poi ripeteva dentro di sé: finché io sarò viva, tu continuerai a brillare.
Il libro si divide in tre parti con l’introduzione di un breve prologo in cui il ricordo di Alberto, figlio di Liliana, manifesta l’orgoglio nei confronti di nonno. Da subito, in poche righe lascia trasparire l’amarezza e il dolore per un destino avverso, ma anche tutta la forza della voglia vivere.
“ Io porto il nome di mio nonno Albero, che mia mamma mi ha insegnato a conoscere e amare, che sento sempre con me….il mio nome significa rinascita, voglia di vivere, rivincita. mio nonno, sebbene privato di una tomba, sebbene ucciso e le sue ceneri fatte passare per un camino, attraverso la memoria e l’amore, mio nonno vive”
La prima parte del libro si apre con i ricordi di una Liliana bambina che corre con il suo triciclo per casa. Non conserva i ricordi né il dolore per la scomparsa prematura della madre data la sua giovanissima età mentre il padre e i nonni sono il punto fermo della sua vita Soprattutto, il rapporto con il padre è molto forte. Liliana lo descrive come un uomo bello, elegante e riservato e con la passione per i francobolli, il suo amore per lui è sviscerato, prepotente e persino egoista. Descrive la sua infanzia felice e tutte le persone a lei intorno, i nonni, così diversi fra loro. Liliana ricorda anche la cameriera Susanna e accenna alle leggi razziali del 1938, quelle leggi che presto cancelleranno i diritti degli ebrei. Da qui i ricordi cominciano a farsi amari. Presto, la bambina vivace e tenera dovrà fare i conti con un’innocenza che svanisce.
La seconda parte del libro inizia con la notizia dell’espulsione dalla scuola. Ci sono incredulità, delusione e senso di smarrimento. All’improvviso tutto il suo mondo sembra sgretolarsi senza capirne il perché, come se improvvisamente fosse diventata invisibile, una nuvola che il vento trasporta lontano. Qui Liliana fa i conti con l’indifferenza di chi ha voluto bene. Quell’indifferenza che si apre come una voragine nel cuore. Percepisce gli inganni degli adulti e si sente tradita dai coetanei. Intorno a lei tutto cambia, non percepisce più il suo mondo.
Cominciano le persecuzioni dei fascisti. In questi anni, una consapevolezza più profonda si fa strada nel cuore di Liliana, quella di un’Italia dalla politica malata, affamata di potere, degli Italiani schierati con un dittatore. Sente parlare dei campi di sterminio come “ soluzione finale”. Nasce la paura, quella vera, per se stessa e per i suoi cari. C’è il bisogno di fuggire e il coraggio di restare. Sono anni in cui chi aiutava un ebreo rischiava la fucilazione immediata.
Qui, la Segre ricorda le persone che hanno aiutato la sua famiglia e il lettore non può non percepire la commozione e la gratitudine. Nei capitoli della seconda parte non si legge solo il punto di vista di una bambina che si affaccia all’adolescenza, ma anche quello di amici e parenti e si apre uno squarcio di dolore che penetra fin nelle ossa, quell’angoscia per una vita che piano piano scivolava via.
La terza parte del libro è la più amara e si apre con una prospettiva di orrore. L’ultimo barlume di felicità e spensieratezza è ormai lontano e sparisce anche la speranza. Tuttavia, se da un lato nell’aria si sente odore di morte, dall’altra c’è la voglia di vivere anche per chi nell’inferno di Auschwitz non è riuscito andare avanti e si è lasciato morire.
“ Dentro di me è scattato qualcosa. il desiderio di sopravvivenza, fortissimo. Un desiderio selvaggio, primitivo “
In quegli anni l’essere umano è ridotto ad una larva, inespressivi, come zombi privi di volontà e vita propria. L’orrore descritto è solo un’esigua rimembranza di ciò che fu vissuto di chi ha cercato la vita e ha trovato la morte.
Rimane il silenzio perché l’inferno non si può descrivere, rimangono gli incubi di cui non ci si libera, resta l’orrore negli occhi della mente che vede ancora quel fumo, persone disperse nell’aria fredda di una terra straniera. Si rimane ad Auschwitz nel respiro corto che ti coglie la notte tutte le volte che ci si ferma che si chiude gli occhi.
Riflessioni personali.
Leggere questo libro è stato come ricevere un pugno allo stomaco. E’ una storia toccante, che ti fa venire le lacrime agli occhi. Ti rendi conto che mai e poi mai potrai capire tutto il dolore, tutto l’orrore, tutta la disperazione di chi ha visto la morte in faccia minuto dopo minuto.
Riporto alcune riflessioni che avevo scritto qualche anno fa ricordando proprio il giorno della memoria.
Il giorno della memoria, il 27 gennaio, passa tra le indignazioni, i ricordi della vecchia generazione e i post della nuova che raffigurano lager riempiendo le bacheche dei social. Puntualmente quelle stesse bacheche tornano “ normali “ il giorno dopo. Poi ancora, parlano della festa della liberazione, di cui molto tristemente, molti non sanno neanche che ricorrenza sia. E ciò duole non poco. E nel frattempo? Tra partiti politici che consumano odio e ripicche servendosi di una popolazione alquanto addormentata, omicidi, e terrorismo vario, la memoria tace nell’oblio di tutti i giorni.
Quando arriverà la resa dei conti per tutti, se mai arriverà, cosa racconteremo ai nostri figli? E ai figli dei nostri figli? Personalmente non ho mai voluto essere una cittadina senza coscienza, che per ignoranza e negligenza accetti passivamente questo gioco delle parti come una macabra danza di sangue e morte. Perché? Perché io non ho la memoria. Io non ricordo. Io non ho vissuto. Sono nata nel 1973, in una Sicilia contadina, in una terra calda e arida di conoscenza. Ed è proprio per questa memoria che non ho che mi sono nutrita di quella altrui e non soltanto attraverso i libri di scuola. E non bastano i concerti e neanche i libri. Bisogna sentirle certe cose. Dentro. Come un pugnale che ti trafigge da parte a parte per farti sentire il dolore della dignità mortificata.
C’è un museo a Torino, in Corso Valdocco, 4/a; ai Quartieri Militari, a due passi da Porta Susa. E’ il Museo Diffuso della Resistenza. Un impatto emotivo non indifferente, per educare non solo alla memoria ma anche al presente perché ciò che è accaduto potrebbe riaccadere e questo non si deve permettere. Il museo si snoda in quattro sale in cui sono riprodotti filmati di vita, di regime e di testimonianze. E’ ricco di documenti interattivi, dove passa la storia di uomini come noi, che col coraggio della paura hanno pagato un prezzo altissimo. E non parlo soltanto della vita perduta, ma anche quello dei compromessi, delle lacrime negate, degli ideali soppressi. Perché purtroppo ci sono parecchi modi per morire. La visita al Museo della Resistenza ti porta a una profonda riflessione. Sei ascolti chi ha vissuto la guerra e nel silenzio ti sembra quasi di essere tra loro, con le mani occupate da un fucile che non ti appartiene, per un bene grande almeno quanto la tua vita: quello della libertà.
Chi, come me, ascolta i concerti in cui si cantano gli anni della resistenza e dei partigiani come “ i Ribelli della Montagna, il Bersagliere, La Pianura dei sette fratelli (i fratelli Cervi) ”, o ancora la famosissima “Bella Ciao”, non può non sentire la rabbia, l’amarezza, il senso d’impotenza che accompagnano le parole di rivolta di queste canzoni. E allora, quando andrete al museo e vedrete i filmati e ascolterete le testimonianze, guardateli quegli occhi di fuoco, osservate attentamente e non siate solo spettatori passivi di anni che sembrano tanto lontani, ma non lo sono per niente. C’erano i nostri nonni, i nostri zii, i nostri padri ancora bambini che hanno visto con i loro occhi, partigiani in un lago si sangue rivoltati sull’asfalto.
Abbiamo il dovere di difendere quella libertà troppo spesso dimenticata. Mi colpisce molto la frase: “Essere antifascisti è un fatto culturale oltre che un fatto di lotta”, detto da Maria Cervi, una dei bimbi rimasti orfani dei sette fratelli Cervi (martiri della resistenza). Questa stessa frase è citata anche alla fine della canzone “ Al Dievel “ cantata da Cisco Bellotti, nell’album “Appunti Partigiani” dei Modena City Ramblers. E chi era il Dievel? Germano Nicolini detto il comandante diavolo. Mi colpisce perché io non c’ero e mi chiedo sempre cosa avrei fatto se fossi nata prima, perché oggi essere considerati antifascisti, è scontato e motivo d’orgoglio cercando di seguire la storia di questi uomini e queste donne che hanno cambiato la storia. Oggi, abbiamo coscienza di tutto il marcio del fascismo, nel nazismo, di tutto il male inflitto agli innocenti. E ieri? E allora, ancora vi esorto a non rimanere solo ascoltatori passivi. Fatevi raccontare la storia da chi ha vissuto la guerra, da chi ha imbracciato il fucile, da chi si è nascosto per mesi per sfuggire alla morte. Sparare e sperare, sperare e sparare. A sangue freddo. No…Non bastano i libri di scuola, non basta una lezione di storia spiegata senza metterci il cuore.
Al museo si può anche visitare il rifugio antiaereo con la simulazione del rumore delle bombe. Ed è lì che sono morta. Morta e risorta in un battito di ciglia. Difficile descrivere l’emozione, il cuore che sembra fermarsi mentre scendi le scale, che sembrano infinite e intanto non riesci a fermare il nodo alla gola e ti sembra quasi di vederli, uomini, donne, bambini che piangono, scappare, stretti l’un l’altro con il terrore negli occhi quando il sibilo di una bomba sganciata è l’unico suono che si distingue nella massa. E il silenzio, quello che percepisci dentro di te e intorno a te nel pensiero ricorrente della morte.
Io non ho la memoria…io non l’ho vissuto. Non ho dormito vestita per paura di scappare da un momento all’altro e non ho pregato tutti i giorni affinché mio marito tornasse vivo da chissà dove.
La storia ci insegna e ci invita verso un percorso di vita chiamato libertà, quindi pensateci quando alzate e chiudete quel pugno. Perché la vostra identità e libertà non vada perduta.
Facciamo in modo allora, che la memoria che non abbiamo possa almeno guidarci verso un alto e vero senso di giustizia.